Il verbo obliterare, che significa invalidare qualcosa (un francobollo, una marca, un biglietto) è uno dei bersagli preferiti dei semplificatori della lingua. Quando si vuole criticare il linguaggio formale, burocratico è questo uno degli esempi più ricorrenti. Si sente spesso sostenere che, per farsi comprendere meglio dal cittadino comune, l’indicazione dell’obbligo di obliterare il biglietto (del treno, dell’autobus) dovrebbe essere sostituita da termini d’uso più comune, come timbrare, annullare. La domanda che costoro pongono è, inevitabilmente, “perché scrivere obliterare quando si potrebbe benissimo dire timbrare?”
Invece proviamo a porre la domanda opposta: perché si dovrebbe scrivere il termine più generico (timbrare o annullare hanno evidentemente un uso più ampio che obliterare)? Si può comprendere la necessità di rendere meno astrusi e comprensibili i testi diretti ai cittadini dalle varie amministrazioni che esercitano funzioni pubbliche. Tra queste, quelle che forniscono i trasporti pubblici. Ma occorrerebbe un giusto equilibrio. Un eccesso di populismo linguistico, che pretenderebbe di evitare i congiuntivi “perché tanto non li usa più quasi nessuno e chi li usa spesso lo fa in modo sbagliato”, o evitare termini tecnici ma non tanto comuni, potrà forse rendere la comunicazione più facile da comprendere. Nello stesso tempo, però, contribuisce a diffondere e consolidare un uso della lingua sempre più limitato povero, ridotto. Un impoverimento culturale generale, insomma. Non dimentichiamo il magistrale esempio di George Orwell, nel romanzo “1984″: dove l’élite dominante provvede progressivamente, nella “neolingua” a ridurre sempre di più il numero delle parole presenti nel vocabolario, fino a lasciare pochi termini semplici e generici. E la riduzione del linguaggio disponibile determina la contrazione della possibilità di pensiero. Che si realizza soprattutto adoperando il linguaggio che ciascuno conosce. A linguaggio più limitato corrisponde pensiero più povero.
Questa tendenza a voler semplificare ad ogni costo la comunicazione istituzionale, anche se sostenuta con le migliori intenzioni, rischia di determinare a lungo termine un danno più che un vantaggio per la generalità della popolazione cui si rivolge. Entrando nel filone, molto alla moda, di un facile populismo, che vuole rispondere ai bisogni immediati della gente senza preoccuparsi delle conseguenze future.
Secondo alcune indagini statistiche, il 28% degli italiani adulti è analfabeta funzionale: cioè, pur essendo capace a leggere e scrivere, non è in grado di comprendere, tanto meno di elaborare, un testo di appena moderata complessità, come ad esempio le avvertenze sull’uso di un farmaco. Secondo alcuni studiosi gli analfabeti funzionali sono molti di più, anche oltre il 50%.
Trattare questi ultimi come dei poveretti che non possono imparare qualche parola un po’ difficile o insolita, significa allargare sempre più la forbice tra la parte colta e istruita della popolazione e quella, sotto questo profilo, più svantaggiata (in maniera speculare alla forbice sempre più larga tra i ricchi e i poveri; dove però le due fasce non corrispondono, esistendo anche semianalfabeti straricchi e persone coltissime che faticano a tirare avanti – ma qui bisognerebbe aprire un altro discorso).
Con un bambino molto piccolo che sta imparando a parlare si usano, per forza di cose, poche parole molto semplici: mamma, papà, bua, sonno, pappa. Ma crescendo, si dovrà pure insegnargli, ad esempio, che la pappa può essere di tanti tipi: minestra, purè, budino e così via. Altrimenti non svilupperà completamente non solo il linguaggio, ma neppure l’intelligenza.
Stefano Rivara