LO SPOSO RUBATO (O NO?)

Amore, ricatti e magia nell’Ovada del ‘600

Nell’autunno del 1663, la piccola storia di Ovada ruota attorno ad un matrimonio conteso

Lui era Felice Tribone, lei Maria Montobbio e l’amore tra i due era materia di contesa. A dividere le famiglie e l’opinione pubblica erano divergenze di ceto. I Tribone erano di stirpe nobile ed i Montobbio di ceto modesto e di moralità dubbia. Tra di loro spiccava in negativo Andrea, “Bandito capitale”, che alternava il servizio per la Repubblica di Genova con l’attività di bandito al servizio dei Guasco.

Il contrasto inizia sul piano legale. Felice, sostenuto dal procuratore Guido Blesi, aveva depositato le lettere in Curia, affermando il desiderio e la libertà volontà di unirsi a Maria. Il padre Giovanni, con l’aiuto di Don Tommaso Ruscone, aveva invece sottolineato come il giovane non amasse la fidanzata, arrivando a scappare a Genova per evitarla.

Il compito di valutare le due tesi è affidato a monsignor Andrea Dogliani. Dopo un colloquio con il giovane Tribone, il Vicario Vescovile concede il permesso per il matrimonio.

La cerimonia, programmata nella cappella della Palazzo Lercaro, non giungerà mai a termine. Il giorno stabilito, infatti, Filippo Tribone, fratello di Felice, irrompe insieme ad un gruppo di amici e rapisce il fratello.

L’evento è doppiamente grave, in quanto offesa contro la legge e blasfemia contro Dio, e riaccende l’astio tra le due parti.

Andrea Montobbio, forte dell’appoggio dei nobili Guasco, minaccia i Tribone ed il prete, considerato loro complice. Filippo Tribone  rimane nella legalità. La sua lettera non nega l’assalto, ma lo giustifica in quanto necessario per difendere la volontà del fratello, costretto ad un matrimonio forzato. Infine, è presente un presunto comunicato di Felice Tribone, che ribadisce la volontà di sposare Maria e si schiera contro Filippo ed il celebrante, considerato complice.

Tale confusione stimola l’azione del Vicario: i suoi controlli non portano a risultati definitivi, costretti tra testimoni prezzolati ed intimidazioni del “bandito capitale” e dei suoi. Il religioso, sostenuto dal Vescovo, ammette l’irruzione ma perdona i protagonisti.

La scelta è motivata da un’ultima lettera, scritta da Felice. Nello scritto, il giovane si descrive vittima della famiglia Tribone e di Maria, “cotanto disuguale a me et a mia casa” e “putana, figlia e sorella di putane”. La decisione del matrimonio era stata estorta dalla famiglia di lei: in caso di rinuncia, il fratello Andrea gli aveva promesso la morte o la reclusione in ceppi in una dei palazzi dei Guasco. Il giovane non aveva però mai perso l’aiuto dei parenti. Da qui l’irruzione il giorno delle nozze, che aveva preso di sorpresa sia Maria, che aveva cercato di trattenerlo afferrandogli i calzoni, che Andrea ed i suoi banditi, in agguato al piano superiore del palazzo.

Non uno sposo rapito, quindi, ma la vittima di minacce e ricatti, forse anche di magia nera.

L’ultimo atto della vicenda è infatti una dichiarazione di papà Tribone: l’uomo attribuisce la temporanea infatuazione del figlio per la giovane Montobbio per una sua “bevanda amatoria e superstitiosa” ed arriva ad invocare l’intervento del Santo Uffizio.

Matteo Clerici

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