GENOVA: A PALAZZO DUCALE UNA MOSTRA CONTESTATA MA BELLA

Artemisia Gentileschi. Coraggio e Passione. La mostra genovese sull’artista romana tra arte e polemiche social-mediatiche

Dal 16 novembre al 1°aprile 2024nei saloni dell’Appartamento del Doge di Palazzo Ducale di Genova sono in mostra circa 50 opere di Artemisia Gentileschi,una delle prime artiste ad affermarsi nel mondo dell’arte ancora dominato dagli uomini nel Seicento. Artemisia Gentileschi, figlia d’arte di Orazio Gentileschi, è stata protagonista di una carriera eccezionale

La rassegna genovese, a cura di Costantino D’Orazio con la collaborazione di Anna Orlando, ricostruisce la vita e la carriera di Artemisia Gentileschi attraverso 50 opere sue, del padre, di altri artisti del Seicento italiano, con un focus sul fenomeno del “caravaggismo” a Genova, e delle prime artiste che nel corso del Seicento iniziarono ad affermarsi nel mondo dell’arte, contemporaneamente o subito dopo Artemisia: Sofonisba Anguissola, Rosalba Carriera, Lavinia Fontana, e Angelica Kauffmann.

La mostra è stata oggetto di una vivace polemica, che, per le leggi del marketing, ha acceso l’interesse del pubblico sull’esposizione stessa. Artemisia Gentileschi, considerata per secoli un’artista minore, è tornata all’attenzione della critica e del pubblico negli ultimi vent’anni, con personali dedicate a Milano, Pisa e Napoli. Artemisia è nota al grande pubblico soprattutto per la violenza sessuale subita a 18 anni dal “collega” Agostino Tassi, anch’egli artista e collaboratore di Orazio. La contestazione, nata da osservazioni delle studentesse dell’Accademia di Belle Arti, Valentina Cervella e Carolina Dos Santos, è stata poi portata all’attenzione dalla social media manager e divulgatrice artistica, molto attiva su Instagram e Tik Tok, Noemi Tarantini.

Noemi Tarantini, sulla pagina di Exibart e in un video, sostiene che la mostra abbia “strumentalizzato” la violenza sessuale della quale l’artista è stata vittima. “La triste vicenda personale della nota pittrice sembra proprio attirare esposizioni in cui lo stupro viene spettacolarizzato fino a diventare pornografia del dolore, rubando la scena alla qualità artistica” sostiene Tarantini, che critica anche la scelta di esporre le opere di Agostino Tassi e ritratti delle artiste dell’epoca “dipinti da uomini”.

Ho visitato la mostra per scoprirne non solo la qualità o meno della scelta espositiva, ma anche per capire se questa polemica abbia ragioni fondate, ed ecco qui di seguito le mie considerazioni. Andrea Macciò

Nella sala d’apertura, oltre all’introduzione e alla biografia, una piantina di Roma nella quale si ricostruisce “dove tutto è cominciato” e dove un’ampia attenzione viene dedicata alla vicenda della violenza sessuale.

La prima sala ospita il confronto tra due rappresentazioni della scena biblica di “Susanna e i vecchioni” quella di Pommersfelden e l’omologo dipinto della Moravská Galerie di Brno, un’opera che suggerisce una chiave di lettura che ruota tutta attorno all’evento tragico dello stupro per decifrare l’arte di Artemisia. In realtà nella pittura del Seicento temi come “Susanna e i vecchioni” e “Betsabea al bagno” erano iconografie ricorrenti nella produzione di tutti gli artisti. Le opere in mostra sono di grande qualità, e certamente è possibile notare una modifica del cromatismo tra l’opera giovanile e quella “matura”.

Nella sala successiva una panoramica esaustiva, delle prime artiste che nel corso del Seicento si sono affermate nel mondo della pittura, dalla cremonese Sofonisba Anguissola ad Angelica Kauffmann. Se non sono state le prime donne a dipingere in maniera professionale, giustamente viene fatto notare che sino a quel periodo le artiste erano soprattutto monache che dipingevano in convento.

La mostra cerca di ricostruire anche il rapporto personale e artistico tra Artemisia e il padre Orazio, del quale è in esposizione la pregevole Santa Cecilia e l’Angelo della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia. Si arriva poi alla prima “sala immersiva” nella quale si cerca di mettere in luce il lavoro compiuto da Agostino Tassi e Orazio Gentileschi presso il Casino delle Muse, normalmente non visitabile, di Roma.

Se l’idea è interessante, la fruizione del video non è facilissima perché la proiezione avviene sul tetto, e nella ricostruzione verbale, si ipotizza che qua Orazio avrebbe cercato di convincere Tassi a un “matrimonio riparatore” (all’epoca, lo stupro era considerato un reato contro la morale- come d’altra parte è rimasto in questo paese fino al 1996-emendabile appunto con le cosiddette “nozze riparatrici). La sala successiva ospita alcune opere di Tassi (nel pannello leggiamo per “dare prova del “suo eccezionale talento”) e una serie di opere di Artemisia che ritraggono “donne minacciate” da Betsabea, la scena biblica della quale abbiamo già parlato, a Cleopatra e Francesca, personaggi che sono accostati con una certa arditezza interpretativa.

Una nuova sala “immersiva” ricostruisce, con la voce di un’attrice, il “processo per stupro” contro Tassi avvenuto nel 1612 a Roma, con le parole autentiche di Artemisia provenienti dagli archivi processuali, con al centro un letto insanguinato in un’atmosfera molto scura e cupa. Si tratta della sala al centro della contestazione di Noemi Tarantini e di altri storici e giornalisti, come Federico Giannini.

Una sala successiva è dedicata alle rappresentazioni di Giuditta e Oloferne, in particolare si confronta la versione di Artemisia, quella esposta per la prima volta alla mostra “Dramma e Passione” presso Palazzo Montani Leoni a Terni e quella del padre Orazio, esposta ai Musei Vaticani, Nel pannello di accompagnamento si sostiene che la Giuditta di Artemisia appaia più “decisa”.

Si tratta anche qua di un tema ricorrente nella pittura del Seicento, non immediatamente accostabile a un trauma personale (peraltro nel racconto biblico Giuditta è un’“attivista politica” e non certo una vittima di violenza).

La mostra prosegue con sezioni dedicate alle “eroine” di Artemisia, personaggi femminili “forti” e protagonisti della storia, nella quale troviamo anche un confronto con la Lucrezia di Simon Vouet, che fu amico e collega di Artemisia, e con la Maddalena di Luca Cambiaso.

Una sezione è dedicata al “caravaggismo” a Genova, ce una delle più interessanti, visto che ricostruisce un legame con il territorio ligure dove nel Seicento erano attivi artisti come Domenico Fiasella detto il Sarzana, Gioacchino Assereto, Bernardi Strozzi e lo spezzino Giambattista Casoni, del quale ricordiamo una pregevole natività nel Museo dei Cappuccini di Genova, un’Annunciazione nella Collegiata di Novi Ligure e  una Cena ad Emmaus nella Chiesa di Sant’Andrea a Levanto.

Al periodo “napoletano” di Artemisia è riservata una sala a parte, con l’Annunciazione conservata nel Museo di Capodimonte, mentre altre opere sono esposte nelle sale a tema. La mostra si conclude con altre video-proiezioni nella Cappella del Doge affrescata da Giambattista Carlone e con la ricostruzione di alcuni “epitaffi” ovvero dediche post-mortem a personaggi famosi allora in uso.

In mostra numerosi quadri di Artemisia per i quali sono ancora in corso problemi di attribuzione.

È stata davvero fatta “pornografia del dolore” a scopo di marketing? Il curatore Costantino D’Orazio ha replicato che sono stati studiati a fondo i fatti storici invitando chi aveva contestato la scelta espositiva e alcune associazioni femministe a una visita guidata della mostra. La presidente di Artemisia Iole Siena afferma “Tutta la mostra è una chiara ed evidentissima denuncia contro la violenza sulle donne, non a caso si celebra la donna che per prima ha avuto il coraggio di denunciare pubblicamente la violenza subita e che, 400 anni fa, ha addirittura sfidato l’intera società per rivendicare la sua libertà. Non è possibile omettere il racconto del fatto che ha segnato tutta la sua vita, soprattutto quella artistica, significherebbe censurare i fatti”.

Noemi Tarantini scrive che l’artista è diventata “un’icona femminista” suo malgrado e che di sicuro non avrebbe voluto essere ricordata come “la pittrice stuprata”.

In effetti, la biografia di Artemisia Gentileschi curata dall’erudito fiorentino Cristofano Bronzini quando l’artista era ancora in piena attività, e che certamente conosceva il Bronzini, non fa alcun cenno all’episodio dello stupro.

Le altre artiste che si affermarono nel Seicento riuscirono ad ottenere lavori e commissioni, solo per il loro talento, e al limite per la loro abilità “comunicativa”. Sofonisba Anguissola è stata un’artista dal talento superiore e una donna molto “intraprendente” per l’epoca, che sposà a cinquant’anni un nobile venticinquenne e fu attiva nell’arte fin oltre i Novanta, ma è molto meno nota di Artemisia.

Noemi Tarantini ha ragione nel sottolineare che il biografismo e il legame con la vicenda della violenza caratterizzi la scelta espositiva genovese, rischiando di far passare l’opera di Artemisia Gentileschi come una sorta di reazione catartica a quanto subito. Non è che questo si possa escludere, ma nessuna fonte lo conferma: si tratta di un’ipotesi molto discutibile, tanto più che Giuditta, Cleopatra, Betsabea e le altre “eroine” sono soggetti ricorrenti. Invece qua la violenza sessuale appare la chiave di lettura dell’intera opera di Artemisia.

La scelta del percorso è tutta guidata dal fatto da “cui tutto è partito” mentre avrebbe potuto essere orientata ad esempio dal soggiorno di Artemisia nelle diverse città come Roma, Firenze, Londra, Napoli e dal rapporto con gli artisti attivi in queste aree e molte ipotesi come quella degli “autoritratti” ricorrenti sono privi di riscontro.

 Il racconto romanzato di un fatto di cronaca sembra a volte prevalere sul racconto artistico. Quanto alla “sala immersiva” non appare di buon gusto, col suo taglio molto televisivo, e la mostra non avrebbe perso qualità senza.

Se qua si tratta di una sola sala, è ormai prassi diffusa allestire mostre spesso costosissime fatte di sole video-proiezioni, una pratica molto discutibile e che riduce l’arte a mero marketing abdicando al ruolo anche “educativo” che dovrebbero avere le mostre d’arte, anche rivolte a un grande pubblico.

Al contrario, la scelta di esporre opere di Tassi, contestata anche questa da Tarantini, ci sembra corretta. Nella biografia non è possibile omettere la vicenda che è avvenuta, e a quattrocento anni di distanza non ha senso sottoporre l’arte di Tassi a damnatio memoriae. Dalle opere in mostra appare un paesaggista non esattamente memorabile, non si vede quell’indiscutibile talento raccontato dal pannello, ma è stato comunque interessante vederle per la prima volta. Nelle mostre di grande “richiamo” spesso le parti più interessanti sono quelle dedicate ad autori meno conosciuti.

La mostra presenta alcuni elementi di interesse, come la sala sul caravaggismo genovese e alcune opere pregevoli di Orazio e Artemisia come le Susanne e l’Annunciazione di Napoli, anche se la filosofia espositiva fondata sul biografismo e sulla rilettura della vita dell’artista secondo il modo di ragionare di oggi appare una trovata di marketing, discutibile ma efficace: bene o male, purché se ne parli.

A giudicare dal vasto pubblico presente, la strategia ha funzionato. Sarebbe tuttavia bello che fosse riconosciuto che un artista non è mai riconducibile solo alla sua biografia e che l’arte dovrebbe essere valutata a prescindere da valutazioni politiche o morali sul suo autore, o autrice.

                                               Andrea Macciò

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