La storia di Arturo Vaula: assassino spietato o uomo ferito dall’abbandono dei genitori?
Nella foto di copertina: LA FIRMA PER PREVENIRE E CONTRASTARE IL DISAGIO GIOVANILE
Oggi si sta parlando molto dei giovani, del loro disadattamento, dei loro comportamenti antisociali, ma il fenomeno non è nuovo e spesso le radici di questo fenomeno sono nascosti nei reconditi episodi della vita, senza fermarsi alla mera cronaca dei fatti. L’articolo che pubblichiamo qui di seguito a firma di Matteo Clerici, ci conferma questa nostra opinione e aggiungiamo che questa ricerca deve partire in primo luogo dal mondo della scuola . Gian Battista Cassulo
Alessandria, estate 1960. la città vive la rinascita dopo la Seconda Guerra Mondiale ed i giovani si godono le vacanze estive. Qualcosa scandalizza (ed attira) grandi e piccoli, interessando giornali locali e nazionali: il caso del delitto di Via Palestro.
Paolina Vaula, 62 anni, cameriera all’albergo Sant’Antonio di Serravalle è stata uccisa: l’unico indiziato, il figlio Arturo, di 20.
Il pubblico ministero, l’avvocato Prosio, non ha dubbi: il Vaula è “Un individuo bugiardo, ladro e cattivo…che si è macchiato del delitto più orribile e raccapricciante: il matricidio”.
Secondo Prosio, il movente è di natura economica. Amante dei soldi facili ma non del lavoro, il Vaula sostiene che “Piuttosto di lavorare vado a rubare, è meno faticoso” e per questo ha litigato più volte con la genitrice, donna operosa e non disposta a sprecare il magro salario.
Quel 28 agosto l’ennesimo litigio si spinge oltre. Di fronte al consueto rifiuto, Arturo colpisce la madre con un mattarello e poi la finisce strangolandola con un grosso fazzoletto. L’agonia della donna dura un’ora, con Arturo testimone impassibile. Quando la donna è morta, il giovane cerca di nascondere l’accaduto, pulendo il sangue e nascondendo il corpo sotto il letto.
In seguito, si appropria dei risparmi in casa (circa 6000 lire) e li spende per andare al cinema, vedere uno spettacolo di burattini ed ubriacarsi nelle osterie del paese. Il giorno seguente si reca all’albergo S. Antonio, cercando di ottenere altri soldi con una falsa lettera, ma la proprietaria, Emilia Molniero, lo conosce e gli rifiuta la somma. Il giovane allora raggiunge Novi Ligure con l’autostop e confessa il delitto alla locale stazione dei carabinieri.
Il P.M. descrive l’imputato come “Ladro, prepotente e sleale”. Un disadattato pericoloso, un delinquente che preferisce il furto e l’omicidio al lavoro come operaio in una fabbrica del posto.
Perciò, la requisitoria finale è chiara, la pena richiesta è il massimo, trent’anni, tenendo conto di una perizia psichiatrica che parla di semi infermità mentale.
Ai difensori, gli avvocati Punzo e Fracchia, almeno il compito di trovare attenuanti. Le cercano nella difficile vita dell’imputato.
Arturo Vaula è il terzo figlio di Paolina, dopo due sorelle, e fin da giovane ha sperimentato solitudine ed abbandono.
Nel gennaio 1953, i carabinieri di Alessandria trovano un 13enne magro e denutrito, che vive in un bivacco sotto il ponte Tanaro e si nutre di caramelle. È Arturo Vaula: i militari lo portano in caserma e ricostruiscono la sua storia. Emerge così come a soli due anni il piccolo fosse stato abbandonato all’Istituto delle suore del Sacro Cuore di Castelferro. A cinque anni, veniva affidato ad una famiglia di contadini del posto. Nel dicembre 1952 viene prelevato dalla madre e dal compagno attuale e portato a casa. Dopo poco tempo, Paolina ed il convivente lo portano in campagna, gli donano 1500 lire e lo abbandonano ancora.
Dall’aprile 1953 al maggio 1956 Vaula è ospite dell’Opera pontificia di Assistenza, da cui è espulso per cattiva condotta, per essere rinchiuso nell’Istituto di rieducazione “Cesare Lombroso” di Torino, dove rimane fino ai 21 anni, la maggiore età per l’epoca.
Punzo e Fracchia citano proprio una lettera dell’Istituto. Il direttore parla di Vaula come di un recluso che “ha mantenuto sempre un contegno esemplare e ha saputo comprendere chi lo comprendeva”: unico problema, le tensioni quando i compagni ricevevano visite dai genitori, per lui sempre assenti.
Per i difensori, questo è il vero Vaula: non un cinico assassino, ma un individuo traumatizzato dall’abbandono dei genitori, meritevole quantomeno della clemenza della corte. A sostegno di ciò, i due avvocati ricordano un interrogatorio nella caserma di Novi Ligure, dove l’imputato aveva descritto “…Una specie dì madre che non si è mai preoccupata dì suo figlio”, che lo costringeva “Ad elemosinare un pezzo di pane per sfamarsi”
Alla fine, Vaula verrà condannato a a 23 anni: pena aggiuntiva, il disprezzo continuo dei compagni detenuti, che non sopportano di condividere il carcere con un matricida.
Matteo Clerici
NOTA: le immagini dell’articolo sono prese dal sito dell’Associazione Chieketè (chiekete.eu), che ringraziamo per la cortese disponibilità.
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